La risposta, secondo un’inchiesta di Reuters, è un sorprendente sì. Dietro i feed patinati di Facebook e Instagram, si nasconde un lato oscuro fatto di pubblicità ingannevoli, prodotti vietati e sistemi che, invece di proteggere gli utenti, finiscono per alimentare il problema.
Nel 2024, circa il 10% dei ricavi di Meta, parliamo di 16 miliardi di dollari, proverrebbe da annunci legati a frodi e contenuti a rischio. Non si tratta di episodi isolati, ma di un flusso costante di circa 15 miliardi di inserzioni “ad alto rischio” diffuse ogni anno tra Facebook, Instagram e persino WhatsApp.
Dietro questi numeri ci sono operatori di marketing sospetti, spesso segnalati dai sistemi interni di Meta stessa. E qui arriva la parte più inquietante: l’azienda esclude un inserzionista solo se l’algoritmo è “sicuro al 95%” che si tratti di una frode. In tutti gli altri casi, invece di bloccare l’account, Meta applica semplicemente tariffe pubblicitarie più alte, come se bastasse un “sovrapprezzo morale” per compensare il rischio.
Il risultato? Gli utenti non solo continuano a imbattersi in truffe online, ma chi clicca su un annuncio fraudolento viene poi profilato come “interessato” a contenuti simili, ricevendo sempre più messaggi ingannevoli. Un meccanismo perverso che trasforma la personalizzazione in una spirale di vulnerabilità.
I documenti interni, analizzati da Reuters, coprono gli anni tra il 2021 e il 2025. Rivelano una doppia faccia: da un lato gli sforzi di Meta per quantificare gli abusi sulle proprie piattaforme, dall’altro la sua riluttanza a frenare pratiche che, per quanto discutibili, generano profitti enormi. Non sorprende quindi che le autorità di Stati Uniti e Regno Unito abbiano scelto il silenzio, mentre analisti e investigatori guardano con crescente preoccupazione a un sistema che sembra avere più interesse a contare i danni che a prevenirli.
Alla fine, la domanda rimane aperta: è davvero possibile bilanciare etica e profitto in un ecosistema costruito sull’attenzione, e sulla fiducia, degli utenti? O il prezzo della “libertà di pubblicare” è ormai troppo alto anche per chi naviga in buona fede?





